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La strega di Manhattan


Non era che routine oramai, Clelia spegneva la sveglia e rapida e silenziosa si preparava per il lavoro.

Era una giovane donna appena ventenne, originaria dell’Oregon, da poco trasferitasi nella grande mela per inseguire il suo sogno. Una storia comune tra le ragazze di provincia ambiziose di un futuro indipendente. Aveva frequentato un collegio scientifico e preso lezioni private di matematica e ingegneria con un illustre professore in pensione amico dei suoi genitori. Si era dedicata anima e corpo alla sua istruzione con l’obiettivo di assorbire come una spugna tutto il sapere possibile per lasciare quella grande casa nella quale era cresciuta, costruirsi un nome e diventare qualcuno, non per merito della famiglia, ma suo.


Il padre era medico, uno stimato neurochirurgo sempre troppo concentrato sul suo lavoro, e troppo poco sulla moglie e la figlia. A loro non aveva mai fatto mancare nulla, facendole vivere nel lusso e nella spensieratezza e, Clelia lo sapeva, a sua madre piaceva così. Era una bella donna, raffinata e posata, colta il giusto ma tremendamente viziata. Non aveva mai lavorato in vita sua e ne andava fiera. Desiderava lo stesso per la sua giovane e taciturna bambina.


Clelia invece, sognava ben altro per il suo futuro, naturalmente desiderava incontrare l’amore, prima o poi, sposarsi e magari mettere su famiglia. Ma prima di tutto ciò, voleva conquistarsi una sua posizione lavorativa di pregio e, proprio come il padre, voleva essere lei a provvedere a sé stessa.

L’inerzia delle giornate della madre non l’aveva mai compresa, al contrario la irritava il suo atteggiamento da donna privilegiata perché, secondo Clelia, il vanto della madre per tutte le sue ricchezze era ridicolo, non era suo il merito, ma del marito e della sua dedizione nel lavoro.


Ecco, Clelia si sentiva molto più simile al padre, era lui il suo modello, sebbene non fosse un uomo facile con cui interagire. Lei, in silenzio, lo rispettava e stimava più di chiunque altro. Gli era anche infinitamente grata perché era solo grazie al suo supporto che aveva potuto fare i bagagli e partire per Manhattan, lì aveva trovato un laboratorio di potenti matematici impegnati in ricerche in ambito medico e scientifico e lei aveva ottenuto uno stage proprio entro quelle rigorose mura.

L’eccitazione e la gioia dei primi mesi erano però svaniti rapidamente, aveva infatti ben presto compreso quanto quel mondo, così intimamente maschile, non l’avrebbe certo accolta a braccia aperte. Avrebbe dovuto fare il triplo della fatica rispetto ai suoi coetanei maschi e, per quanto all'inizio tentò di accettarlo, questa condizione di inferiorità alla quale era ininterrottamente sottoposta tutti i giorni in laboratorio, aveva finito per consumarla. Il suo entusiasmo si era a via a via placato, il suo sorriso aveva lasciato spazio ad un’espressione apatica e i suoi occhi brillanti di conoscenza, erano ora spenti. Le uniche cose che rimasero invariate erano la sua passione e il suo innegabile talento per le scienze.


Quella mattina, dopo la consueta routine pre-ufficio, successe qualcosa che per sempre avrebbe segnato il destino della giovane Clelia.


Nella caffetteria sotto casa, ordinò distrattamente il suo Caffè Mocha da portar via e, nella confusione del locale, intenta a cercare le monetine nel portafoglio, urtò una paffuta cameriera facendole rovesciare l’intero contenuto del vassoio. L’ironia della situazione volle che una sola cliente subì le conseguenze della sua sbadataggine, una donna sulla quarantina, apparentemente posata ma dall’allure decisamente eccentrica che, dopo aver rimproverato Clelia e la cameriera, si abbandono in una contagiosa risata. Era un completo vecchio quello che indossava, confessò, e aveva giusto intenzione di liberarsene in previsione di una soddisfacente giornata di shopping.

Clelia insistette per offrirle qualcosa, mettendo anche a disposizione il bagno del suo vicinissimo appartamento per permettere alla Signora di darsi una sistemata. Signorina, precisò lei, e dopo aver dato l’ultimo sorso al suo annacquato Caffè Americano, si lasciò guidare da Clelia verso la porta del suo appartamento.


Dopo soli cinque minuti ne uscì come nuova, perfettamente ordinata e profumata.


Clelia era solita arrivare in ufficio con circa due ore di anticipo rispetto all'apertura, quel giorno invece, preferì perdersi in chiacchiere con quella donna appena conosciuta che, sin da subito, l’aveva rapita.


Era bella, indubbiamente, ma soprattutto era fiera, un atteggiamento che non aveva mai notato nella madre. Era una donna intelligente, constatò Clelia dopo una buona mezzora di chiacchiere, aveva scoperto che possedeva uno show-room di auto sportive Italiane: Bugatti, Ferrari, Maserati e Lamborghini. Oltre a possedere lo stabile, lei era il capo della sua attività che aveva aperto 18 anni prima in totale autonomia. Sotto di lei, 12 dipendenti, di cui solo 2 uomini. Il suo nome era Sarah e Sarah, era una strega.


Non aveva certo i poteri, si sa, le streghe come quelle dei cartoni animati non esistono. Lei era una “strega” solo di appellativo, un nomignolo pensato da uomini concorrenti, invidiosi delle sue abilità e del suo successo. La chiamarono così sin da subito, appena aperta la sua attività e non ci fu verso di cambiare le cose. All'inizio lei ci aveva sofferto, per quanto si sforzasse, non era mai riuscita a farsi accettare nell'ambiente automobilistico, i suoi competitori, ai quali aveva proposto numerose collaborazioni ed iniziative, non le avevano mai taciuto l’opinione che avevano di lei: una bella donna di buona famiglia, con le conoscenze giuste e le gambe aperte, era lì perché qualcuno ce l’aveva messa, non certo per le sue competenze perché, è chiaro, una donna non ha competenze quando si tratta di automobili e affari.


Sarah, inutile dirlo, aveva sofferto e molto, ma un bel giorno, stanca dell’ingiustificata cattiveria e arroganza di questi uomini, aveva scelto di usare l’intelligenza e con sguardo fiero, testa alta e consapevolezza di sé, aveva smesso di dare loro importanza. Da quel momento la sua vita aveva subito un’impennata, com'era bello, raccontò a Clelia, essere fieri di sé stessi, sentirsi realizzati e dar poco conto alle carogne.


Due ore dopo in ufficio, Clelia non riusciva a smettere di pensare a Sarah, alla sua storia e alla sua personalità, così invidiabile e d’ispirazione per le giovani donne. Tirò fuori dalla borsa il bigliettino da visita che le aveva lasciato, lesse l’indirizzo e prese una decisione; dopo il lavoro sarebbe passata da lei allo Show-room, doveva chiederle come essere coraggiosa e determinata sul lavoro. Sarah doveva aiutarla ad essere coraggiosa.


E così fu, Clelia venne introdotta dall'ormai fidata amica e confidente in un club privato di sole donne. Giovani, anziane e di mezz'età, non importava quanti anni avessero o quale fosse la loro nazionalità, l’unica cosa che davvero contava era il desidero di riscatto delle donne. Erano stanche di sentirsi messe da parte in ufficio all'arrivo di un nuovo collega, pure impreparato che fosse, ma maschio. Non ne potevano più di sentirsi chiedere “Hai il ciclo?” con aria scocciata e irritata da mariti, fratelli o compagni. E le serate di sole donne, quando ti agghindi sfoggiando il jeans che ti aderisce nei punti giusti, la camicetta scollata e un bel tacco, ecco quelle stesse serate in cui non si poteva aver pace dagli sguardi maleducati, dai fischi e dai commenti di uomini ignoranti. Come si permettevano? Queste donne erano stanche di essere tagliate fuori dai discorsi di affari, borsa e politica. Ne avevano le tasche piene di dare il massimo in ufficio, ottenendo sempre meno del compagno di scrivania o di meritare la borsa di studio per meriti sportivi ma vedersela poi soffiare dall'atleta maschio della scuola perché lui di certo farà più carriera. Che ingiustizia.


Ma queste, e Clelia lo capì sin dalla prima occhiata, non erano donne che si lamentavano, sbuffavano o lagnavano. Non perdevano tempo con inutile pessimismo, né additavano uomini, governi o società. Loro non si piangevano addosso e non si consolavano in confessioni e scenate strappalacrime. Loro agivano. In silenzio e con garbo, educate e sempre rispettose, ma agivano. Nella loro quotidianità pretendevano rispetto e uguaglianza, parità!


Nel sottotetto della casa di Sarah, le donne del quartiere si riunivano per parlare di donne, di femminismo, di ingiustizie e di provvedimenti e l’una spalleggiata dall'altra lavoravano su sé stesse, perché consapevoli che il cambiamento doveva partire proprio da loro e non dall'alto. Erano le persone comuni le uniche con il vero potere di riscattare una volta per tutte la figura della donna sul lavoro e nella vita.


Clelia lo comprese e dopo sole tre settimane di incontri con le altre compagne, era pronta al passo che temeva non l’avrebbe mai toccata. L’indomani sarebbe andata nell'ufficio del suo datore di lavoro. Con rispetto e pacatezza avrebbe esposto le sue perplessità sull'isolarla ad un ruolo marginale. Avrebbe portato argomentazioni valide e giustissime a favore delle sue competenze, del suo sapere e del suo talento per le scienze, avrebbe poi ragionato in sua compagnia a proposito di una promozione, un incarico di maggiore prestigio con uno stipendio adeguato e affatto inferiore a quello dei suoi colleghi. Infine avrebbe anche trovato il coraggio di esporre un progetto al quale lavorava sin dai tempi del collegio. Un progetto che, Clelia ne era finalmente davvero convinta, sarebbe stato un successo. Lei era un successo e non avrebbe più dovuto aver timore di mostrarlo.


Clelia e Sarah si legarono in un’amicizia che sarebbe durata per sempre, due donne coraggiose e indipendenti, emancipate e lavorativamente impegnate. Due donne intelligenti, tolleranti e pazienti che si presero la loro libertà facendone la chiave del successo delle loro vite.

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